La nuova Libia. Migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire in prigione

Urla di dolore arrivano dalla riva sud del Mediterraneo. Invocazione di soccorso che nessuno sembra intenzionato a raccogliere. Non i nostri mezzi di informazione, non le organizzazioni umanitarie

Cagliari -

Riceviamo questo contributo di Salvatore Drago, che volentieri pubblichiamo.

 

 

Per mesi i media hanno dato informazioni continue sulla violazione dei “diritti umani in Libia”.

Per mesi ci hanno fatto vedere come morivano i “poveri africani del Sub Sahara che cercavano di attraversare la Libia per raggiungere l’Europa”.

  

 

Erano i mesi in cui i Paesi NATO preparavano l’attacco alla Libia. E i nostri valorosi cronisti erano sul posto per raccontarci delle nefandezze del governo libico. Fiumi di inchiostro sono stati versati per raccontarci dei morti nel deserto. Delle orribili condizioni in cui versavano i prigionieri nelle carceri di Tripoli ecc.. Si parlava solo di questo, non si informava l’opinione pubblica che il colonnello Gheddafi si attrezzava per uscire dalle forche caudine del FMI e creare una banca africana. La Libia era uno dei pochissimi Paesi africani a non avere debiti verso l’estero; ed era un paese che dal 1984 stava costruendo 3.000 km di acquedotti per portare dal deserto alle città le acque fossili scoperte nel corso delle ricerche petrolifere, di portata di  6.500.000 di mdi acqua potabile al giorno (con tale prelievo potrebbe durare per circa 14 mila anni), progetto dal costo di 20 miliardi di Euro completamente autofinanziato. La Libia, va ricordato, era uno dei pochi paesi d’Africa laico e che ospitava mano d’opera proveniente dall’estero per circa due milioni di unità, su una popolazione di 6 milioni di abitanti, indice di  tolleranza etnica, razziale e religiosa.  

 

 

E poi venne la guerra e allora per qualcuno fu chiaro che quelle informazioni forse non fossero state tanto disinteressate ma che dovevano servire a preparare la pubblica opinione all’idea della guerra e farla accettare come un male necessario. Necessario per liberare la Libia dal colonnello che “teneva in scacco il suo popolo e i cittadini stranieri”. E in questo gioco tutti si sono esercitati e hanno fatto a gara a dimostrare chi fosse il più bravo: i mezzi di informazione “progressisti” si sono dimostrati i più convinti, i più scatenati nel propagandare quest’altra “guerra umanitaria”. Le cosiddette organizzazioni umanitarie hanno fatto a gara nel fungere da megafono ai dispacci provenienti dai servizi segreti e dai “guerriglieri anti Gheddafi”. E gli stessi mezzi di informazione non ci raccontavano che quelle carceri in Libia erano state costruite con accordi firmati coi governi italiani. Una sorta di carcere per conto dello stato italiano atto a contenere il flusso migratorio sulle nostre coste. Questi erano gli accordi che i nostri Prodi-D’Alema, Berlusconi-Maroni, andavano a firmare nei loro viaggi in Libia. Ma di questo noi non dovevamo sapere nulla. Non potevano turbare le nostre coscienze.

 

E poi venne la guerra col suo carico di distruzione, di morte, di assassini e la pace sembra regnare in Libia. La pax romana. La pace che regna sulle macerie e sui cimiteri! Così sembra visto che i nostri mezzi di (dis)informazione tacciono. Sono in altre cose affaccendati. Sembrano rivolti altrove verso altri scacchieri (la Siria o l’Iran?), verso altre possibili guerre.   

 

A rompere questo silenzio assordante ci ha provato l’Avvenire (quotidiano della CEI) con una articolo a firma di Paolo Lambruschi il quale ci dice che "​Le porte dell’inferno sono sempre spalancate per migliaia di profughi eritrei, somali e sub sahariani in Libia sospesi in un limbo senza ritorno. E che, ”continua ovunque la caccia al nero praticata da gruppi armati fondamentalisti“; e ancora che “nelle carceri i richiedenti asilo, tra i quali donne e bambini anche piccoli, vengono stipati in spazi angusti, malnutriti, privati di assistenza medica, torturati e uccisi dai miliziani, e sottoposti a pressioni perché accettino il «rimpatrio volontario». Queste persone sono “colpevoli”di avere un colore di pelle diverso da quella dei cittadini libici e, quindi, vengono accusati di aver fatto parte delle milizie di Gheddafi.

 

Costa caro corrompere i miliziani libici: per poter uscire dal carcere in media 800 euro. Il prezzo su un barcone senza pilota si aggira sui 2000-2500 euro. Questa è la cifra che devono sborsare per andare incontro alla libertà e spesso ad una morte per naufragio.

 

Chi non ha i soldi diventa schiavo dei militari o di ricchi libici.
Don Mosè Zerai, sacerdote eritreo, h
a presentato al Parlamento europeo e alla Commissione di Bruxelles un dossier dettagliato e inquietante sui nuovi orrori delle carceri nella Libia post Gheddafi (che continua a non aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati) e chiede a Ue, Unhcr e al governo italiano di fermare la caccia al nero. Don Zerai ha raccolto le testimonianze di profughi che hanno varcato il confine libico negli ultimi sei mesi nella vana speranza di raggiungere le coste e comperare dai trafficanti un passaggio su una carretta del mare verso le coste italiane. E che, rastrellati e derubati dalle milizie, marciscono in carcere. 

 

Ma chi pensa che il parlamento europeo voglia perdere tempo in simili quisquiglie? Non è stata la stessa comunità europea a finanziare in parte questi campi? Solo nel 2007 andarono verso la Libia 2 milioni di euro per il “rimpatrio volontario”. Sono perseguitati in fuga dall’Eritrea, dalla Somalia e dall’Etiopia, che sono tornati in Libia per provare a raggiungere l’Europa perché la via che porta dal Sinai a Israele, battuta in massa prima è diventata adesso  una trappola mortale.  

 

 

A luglio un rapporto della Fondazione IntegrAzione ricordava che tre campi di prigionia libici (Kufra, Sebha e Garyan) sono stati finanziati nel biennio 2004-2005 con fondi dati al Viminale dalla legge 271 del 2004 dopo i primi accordi con Gheddafi.
«Migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire in prigione – denuncia il rapporto – e fuori non cessa la caccia al nero che continua a riempirle: arresti sistematici nel sud di giovani che hanno appena passato la frontiera, retate nelle città e rastrellamenti sulla costa».

 

Alle discriminazioni razziali si sommano le persecuzioni religiose. «I miliziani – prosegue don Zerai – costringono tutti a pregare secondo la fede islamica, durante il ramadan hanno obbligato tutti a osservare il digiuno. Simboli cristiani ed effigie di santi sono proibiti, alle donne sono state strappate le croci al collo, chi ha un tatuaggio ispirato al cristianesimo lo nasconde per non venire picchiato. Le donne devono coprirsi e portare il velo. Molte famiglie sono state divise perché uomini e donne non possono stare insieme».

 

Chi reagisce viene torturato e frustato. Una punizione frequente è il finto annegamento, i più giovani vengono invece fatti correre e presi a fucilate come animali. «Storie che ascoltiamo da anni, dimenticate, come quelle – conclude il prete eritreo – della tragedia parallela degli eritrei nel Sinai, catturati dai predoni beduini, torturati e incatenati in prigioni improvvisate finché non viene versato un riscatto arrivato a 50 mila dollari».

 

“Urla di pace” conclude Lambruschi arrivano dal Mediterraneo. Invocazione di soccorso che nessuno sembra intenzionato a raccogliere. Non i nostri mezzi di informazione, non le organizzazioni umanitarie sempre e comunque a rimorchio del vincitore, in questo caso le potenze NATO e le milizie antigheddafiane. 

 

 

Tutto questo avviene nella totale indifferenza della comunità internazionale. Dell’Europa e dell’Italia, soprattutto. Dell’Italia che ha rinnovato e mantiene in vita, con il governo rivoluzionario, gli accordi sanciti in passato da Berlusconi e da Gheddafi. Il “trattato di amicizia”  generale è stato firmato dal premier Mario Monti il 20 gennaio 2012, con l’intesa di elaborare capitoli specifici per alcuni problemi particolari, come il controllo dell’emigrazione. Sono stati ignorati tutti gli appelli  di varie organizzazioni umanitarie, di subordinare questa ritrovata “amicizia” e collaborazione alla garanzia del rispetto dei diritti umani nel Paese. Non vi è stato nessun cambiamento di rotta neanche dopo che, il 23 febbraio, la Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per la politica dei respingimenti indiscriminati in mare nei confronti dei migranti, voluta dal ministro leghista Maroni con il governo Berlusconi. Il nuovo ministro dell’interno Cancellieri, ha firmato il 3 Aprile un nuovo accordo sull’emigrazione che, si è rivelato quasi la fotocopia di quello “leghista” dei respingimenti e della conseguente consegna dei profughi alle carceri libiche.

 

 

La politica dei respingimenti continua. Il 29 giugno, sono emersi concretamente gli effetti di questa rinnovata intesa, con il blocco in mare, da parte di navi militari italiane e libiche, di un barcone con a bordo 76 richiedenti asilo eritrei e somali, consegnati poi alla polizia di frontiera e trasferiti nel centro di detenzione di Sibrata Mentega Delila, nei sobborghi di Tripoli. Tra loro, anche donne incinte e due bambini di poco più di un anno.

 

Va ricordato che questi profughi sono a rischio di deportazione: le autorità libiche vogliono riconsegnarli ai paesi dai quali sono fuggiti per sottrarsi a persecuzioni e guerra, pur essendo noto che in molti casi – per gli eritrei, ad esempio – rientrare dopo aver tentato l’espatrio clandestino comporta la condanna a lunghi anni di carcere o addirittura alla morte, specie se si tratta di militari o giovani comunque in età di leva.

 

“Da una Libia ‘democratica’ – protesta don Zerai – ci aspettavamo maggiore rispetto dei diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli Africani: una lotta serrata contro ogni forma di discriminazione per motivi religiosi, etnici, razziali. Non è in alcun modo comprensibile questo accanimento contro i profughi. Ed appare assurdo, assordante il silenzio della comunità internazionale”.

 

Di fronte a tutto questo, don Mosè Zerai lancia un ennesimo appello alla comunità internazionale. All’Unione Europea perché intervenga sul governo libico. All’Italia perché faccia sentire la propria voce, sospendendo intanto l’efficacia dei trattati appena firmati. Alle agenzie delle Nazioni Unite perché tutti i profughi detenuti vengano liberati al più presto e trasferiti in centri di accoglienza gestiti dalla Commissione Onu per i rifugiati”.

                                                                               Salvatore Drago