La precarietà esistenziale come identità sociale: una operazione ideologica
Questo articolo è stato pubblicato nel N. 2008.2 di PROTEO (rivista quadrimestrale del Centro studi RdB-CUB)
- Premessa -
Sulla soggettività sociale incombe una complessa operazione ideologica. A partire da ben noti processi in atto, dalla destabilizzazione del rapporto di lavoro alla disarticolazione della vita sociale, si tenta di innescare una prospettiva inquietante: “sradicare” dalla coscienza collettiva la vecchia identità connotata dalla stabilità della prospettiva di vita, per “trapiantarvi” una identità di nuovo conio, che si riconosca nella condizione di precarietà esistenziale.
1. La ridefinizione della identità sociale
Nel quadro dei processi di produzione ormai giunti a maturazione, l’identità sociale è chiamata a misurarsi con la condizione di precarietà. Su questo versante, risulta completamente spiazzata una identità sociale ancora legata al mondo della stabilità del lavoro e del sistema di garanzie. C’è quindi il rischio che i soggetti vivano la nuova realtà con la testa rivolta al passato e in una condizione di forte tensione esistenziale, che potrebbe tradursi in opposizione sociale. Da qui la necessità di riallineare l’identità sociale alla instabilità del lavoro, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà. In questa logica perversa, il modello di soggettività che meglio si attaglia al sistema avanzato di produzione ha un connotato di base: la precarietà esistenziale come identità sociale. Attenzione. Non più una identità in conflitto latente con la condizione di precarietà. Ma la condizione di precarietà che si incarna direttamente nella identità sociale e determina l’essere al mondo delle persone. In concreto, l’inquietante prospettiva che si tenta di aprire va oltre l’attuale realtà, di per sé devastante, in cui le nuove generazioni non sono in grado di progettare il proprio futuro. Si mira ad un essere sociale in cui i giovani, a forza di vivere in condizione di incertezza, siano indotti a immaginare il loro futuro in termini di precarietà esistenziale. Bisogna cercare di cogliere bene la cifra di questo passaggio. Ci dobbiamo chiedere: una volta operata l’istituzionalizzazione della instabilità del lavoro, che si traduce inevitabilmente in precarietà esistenziale, perché si può avere interesse a proiettare questa condizione sulla identità sociale? La risposta è semplice: perché si vuole che i soggetti si sentano realizzati nella condizione di instabilità. In pratica, si vuole fare emergere una soggettività collettiva, soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo non la fonte della propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la possibilità di scegliere ogni volta tra le alternative che offre il mercato e di arricchire, per questa via, il proprio bagaglio esperienziale.
2. Il modello ideologico: la distinzione tra flessibilità e precarietà
Il tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si avvale di un modello ideologico, incentrato sulla distinzione tra flessibilità e precarietà. Modello fatto proprio dalla sinistra istituzionale e dai vertici dei sindacati confederali. La flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato di produzione. Ma, di per sé, non comporta precarietà. Basta adottare gli opportuni ammortizzatori sociali, che assicurino la sopravvivenza nei periodi in cui si viene a mancare dei mezzi di sussistenza. Per questa via, si tende a istituzionalizzare la precarietà come modalità tecnica del processo avanzato di produzione. Ora, come si fa a sostenere che l’alternarsi di lavoro e non lavoro, vale a dire un continuo movimento sismico della vita quotidiana, non provoca precarietà esistenziale? È irrilevante sentirsi alternativamente soggetto attivo e relitto sociale, al minimo della sussistenza? Ed è irrilevante, sul piano banalmente contabile, non potere pianificare le proprie striminzite spese? Come si fa a tenere fede agli impegni finanziari sottoscritti (l’affitto mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della macchina, ecc.) quando, da un giorno all’altro, la già misera entrata viene ridotta drasticamente, nel passaggio dal salario alla indennità di disoccupazione? Nel quadro qui presentato per tratti essenziali, l’istituzionalizzazione della precarietà esistenziale, sulla base della ridefinizione della identità sociale, tende a restringere i già sottili margini di autonomia della società nei confronti della valorizzazione capitalistica. Il capitale tenta così di spostare in avanti il suo dominio sulla esistenza di masse di uomini e donne. È bene che le forze di opposizione antagonista ne tengano conto.
3. Due conferme dell’operazione ideologica
Per concludere, mi limito a riportare due conferme dell’operazione ideologica in corso. Il Corriere della Sera (19/03/07, p. 7) pubblica l’annuncio, ben evidenziato, di un convegno di alto profilo. Il testo è un vero e proprio manifesto: “Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro consente ai singoli di accumulare nuove competenze e, in prospettiva, di ottenere maggiori guadagni rispetto al vecchio posto fisso”. Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. E quindi indotti a identificarsi nella loro condizione di precarietà. Su una copertina di Panorama (n. 52 del 26/12/07) campeggia la foto di una giovane donna seduta al suo tavolo di lavoro. A fianco una grossa scritta: “Vi sembro precaria?”. In effetti, è l’immagine di una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è ancora più esplicita: “Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a vivere bene”. E nell’interno si leggono le note vicissitudini del lavoro instabile, ma raccontate in chiave di “felici di essere precari”. Ecco l’identità sociale che si vuole prospettare: una incarnazione della precarietà esistenziale.
Filippo Viola - Professore di Sociologia, Fac. di Sociologia, Univ. “La Sapienza”
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