Mezzo milione di sardi vivono in condizioni di povertà, 126.000 sono disoccupati, decime di migliaia in cassa integrazione, i pensionati hanno redditi da fame. A quando politiche di sviluppo?
La fotografia scattata dal Consiglio Regionale dell’Economia e del Lavoro (Crel) è una immagine di forte difficoltà dei sardi.
I sardi esposti a rischio povertà sono circa 400.000, pari al 21% della popolazione complessiva.
I pensionati nell’isola sono circa 470.000 (pari al 28% dei residenti), e percepiscono un reddito mensile medio di 670 euro (780 è la media nazionale, pensioni da fame, che andrebbero almeno rivalutate all’inflazione reale).
Sul fronte dei giovani la situazione è allucinante: Il 50% dei giovani non lavora e spesso non studia e non fa formazione.
La disoccupazione maschile è al 18,51 %, mentre quella femminile è al 18,6%.
I disoccupati sono 126.000, mentre 28.000 usufruiscono degli ammortizzatori in deroga.
A livello nazionale la situazione è altrettanto disastrosa: la disoccupazione è in aumento e sale al 13 % ( in aumento di 1,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima), che tradotto in soldoni significa 3.307.000 disoccupati (in Germania, tanto per avere un termine di paragone, il tasso di disoccupazione è al 6,7), in aumento di 8 mila su gennaio e di 272 mila su base annua. E’ il peggior dato negativo dal lontano 1977. Ogni giorno 1.000 persone perdono il lavoro. Mentre gli occupati sono il 55,2% della popolazione, con quasi la metà della popolazione fuori dal lavoro. La disoccupazione femminile è al 13,6%, mentre quella maschile è al 12,5%. Nel giro di un anno (da marzo 2013 a febbraio 2014) in Italia ci sono 365.000 occupati in meno.
Tra i giovani sotto i 25 anni, il tasso di disoccupazione è al 42,3%.
Un terzo della popolazione sarda che vive senza prospettive per il futuro e in condizioni reddituali al di sotto della soglia della povertà: la soluzione prospettata da molti è un incremento delle politiche di assistenza e di carità da parte delle istituzioni, tramite destinazione di fondi anche a quell’associazionismo che ha fatto della carità una professione e un sistema clientelare (richieste di accoglienza di migranti in difficoltà sono state respinte dall’assistenzialismo cattolico a livello locale; alcuni di loro sono allontanati dopo alcune notti di accoglienza senza motivazione. Ci chiediamo se esista una discriminazione razziale, o semplicemente religiosa, non essendo questi ragazzi per lo più cattolici, o se sono entrambe le discriminazioni sono coniugate in nome di politiche burocratiche di cui non riusciamo a conoscere la logica. Logica che non viene rappresentata quando si tratta di battere cassa). A queste politiche preferiamo quelle più naturali; quelle che fanno rinascere il lavoro, che è dignità, che fanno rinascere i redditi nelle comunità locali, nelle officine, nelle botteghe artigianali, nei laboratori, negli uffici, nelle aziende, pubbliche e private, nelle campagne e ovunque vi sia possibilità di lavoro, e quindi di libertà economica.
I risultati sintetici che abbiamo elencato certificano il fallimento delle politiche economiche di austerità promosse dai governi conservatori e progressisti in Europa, promosse dalla Bce e dal Parlamento Europeo, che hanno innestato una recessione spaventosa. Una politica che ha sfinito le imprese, abbassando incredibilmente la quota produttiva, e colpito profondamente i lavoratori e le loro famiglie nei loro redditi. I dati che il Tesoro ha pubblicato relativi ai redditi dichiarati nel 2012, dal quale risulta che i dipendenti guadagnano in media 20 mila euro, i loro padroni 17 mila euro, mentre i pensionati denunciano 15.780 euro, denota un profondo malcostume ed evasione fiscale che nessun governo ha deciso di contrastare. Quella fiscale sarebbe la madre di tutte le riforme da fare, non l’abolizione del Senato e la riforma del sistema elettorale, anche perché il 94% dell’Irpef viene pagata da lavoratori dipendenti e pensionati. Le reazioni di stupore e preoccupazione del presidente del consiglio ci lasciano stupiti e preoccupati: propone ancora più lavoro precario, riformando il lavoro a tempo determinato, e propone ancora più licenziamenti nella pubblica amministrazione, con il piano Cottarelli, che prevede 85.000 dipendenti in meno nel pubblico impiego.