PROGETTO ELEONORA: LA POPOLAZIONE NON VUOLE LE TRIVELLE
Una norma basilare che si usava insegnare in educazione domestica era quella di controllare la dispensa prima di uscire a fare la spesa e chiedersi “cosa serve”? Già cosa serve per i bisogni giornalieri, o settimanali, per soddisfare i bisogni della famiglia. Lo stesso principio, dovrebbe valere per la regione, i comuni, la provincia, lo stato; questi enti, invece, hanno ribaltato il principio del cosa serve usandolo per rispondere alla domanda: cosa serve vendere al costruttore, ideatore o magari il mezzano di turno.
Se si usasse questa semplice norma di economia domestica si produrrebbero e commercerebbero merci e beni che servirebbero alla comunità, (mezzi di primo sostentamento come il mangiare, l’abitare, il vestire) e prodotti che potrebbero dare quel giusto valore aggiunto che servirebbe a finanziare quei beni immateriali di cui la comunità ha bisogno: istruzione, cultura, tempo libero, sanità ecc..
Usando, invece il principio che sembra tanto piacere ai nostri governanti si ottiene il risultato dell’accaparramento selvaggio dei beni che il territorio dispensa per l’arricchimento di chi ci vuole speculare e cerca facili arricchimenti: così è stato per le nostre città: cresciute a dismisura non perché ci fosse un bisogno reale di costruire ma perché i piani regolatori sono stati fatti (quando sono stati fatti) non tenendo conto delle reali esigenze della cittadinanza, ma sotto dettatura di costruttori il cui unico interesse è stato, ed è, di costruire piuttosto che di recuperare, costruire per far fronte ai debiti pregressi con le banche e, pazienza, se si costruiva, e si continua a farlo, in luoghi e posti tutelati o che tali dovrebbero essere come beni di interesse storico archeologico (Tuvixeddu, per citarne uno) o le coste. Il primo principio avrebbe fatto sì che non si verificasse lo spopolamento dei paesi dell’interno e che le nostre coste non fossero invase dal cemento, che le città non crescessero a dismisura ed in modo così anonimo e brutto, ma così ha voluto l’incuria di chi ci ha governato, l’avidità di costruttori, l’egoismo miope, di chi pensando di fare l’affare del secolo ha svenduto il proprio appezzamento di terreno per comprarsi la “cinquecento” ed il biglietto per la nave per emigrare o far emigrare il proprio figlio.
Lo stesso criterio è stato usato per la industrializzazione della Sardegna: industrializzazione voluta per rispondere allo stato di malessere delle zone interne (così ci avevano detto) ed il cui risultato è stato che intere comunità fossero private dei loro mezzi di sostentamento (greggi e campi) per far posto a industrie altamente inquinanti, il più delle volte assemblate con macchinari già obsoleti atti alla produzione di beni che erano già fuori mercato prima ancora di nascere. Ed il deserto industriale, le macerie che da quella “industrializzazione” fasulla buona solo a riempire le tasche di “prenditori” scesi al rimorchio della politica visto che questa industria è stata fatta (ed anche disfatta) a spese dello stato, della Regione e della comunità tutta. Insomma sono venuti, i capitani d’industrie, hanno preso, sono scappati con la cassa lasciando le macerie, l’inquinamento e la disoccupazione. La Sardegna, come terra di conquista, anzi da saccheggiare, visto che le porte non hanno bisogno di essere abbattute ma vengono regolarmente spalancate da politici accondiscendi che “poi” giocano a fare gli indipendentisti fino a votare una ridicola mozione di indipendenza. Loro, gli stessi disposti a prostrarsi al primo sceicco di turno e dirsi pronti a offrire ettari di terreno sulle coste più belle per far giocare con ridicoli modellini di go-kart o a golf gli ospiti danarosi di questi nababbi in petrodollari. Gli stessi che concedono generosamente centinaia di kilometri di terra (chiamati poligoni) a tutti gli eserciti del mondo per sperimentare i loro ordigni di morte ricevendo in cambio, malattie, inquinamento e qualche spicciolo. Sono sempre gli stessi che nei giorni dispari giocano a fare i difensori del “popolo sardo” ed in quelli pari, si adoperano per promettere l’Eldorado ai sardi.
Già, l’Eldorado, e a questo proposito, non possiamo tralasciare di parlare di ORO, anzi dell’Oro di Furtei. Oro è sinonimo di ricchezza, e il miraggio della ricchezza si faceva balenare ai contadini, ai tanti disoccupati, ai pastori di Furtei allorquando prese piede il progetto per l’estrazione dell’oro. Da un punto di vista minerario l’oro non è certo più remunerativo di altri minerali, e le ricadute in termini di industrie di trasformazione nel territorio in cui è presente sono decisamente inferiori e più effimere rispetto a quelle di altri minerali “vili”, come ad esempio le argille. Il valore dell’oro deriva dalla sua scarsissima abbondanza geochimica; per ottenere 3-4 grammi di metallo occorre estrarre e sottoporre a trattamento una tonnellata di roccia. Il valore di un grammo d’oro dipende, come quello di tutte le merci, soprattutto dal lavoro necessario per produrlo.
La fine (tragica fine) di quest’avventura ce la racconta in questi termini il sito BENI COMUNI MANCIANO:
“Nel 1997, la Sardinia Gold Mining annunciava la fusione del primo lingotto d’oro della nuova Eldorado italiana, nella Sardegna meridionale a Furtei, 40 chilometri da Cagliari. Quel giacimento, a lungo indagato dall’Agip e poi passato in mano a due società minerarie australiane, era stato infine messo a coltivazione da questa società sardo/australiana finanziata per un 10% anche dalla Regione Sardegna. Su di una superficie complessiva di circa 3.000 ettari prima dedicati ad una agricoltura irrigua (ricca di bacini e corsi d’acqua) venivano aperte 4 miniere a cielo aperto ed alcuni bacini per lo stoccaggio dei reflui chimici del trattamento di arricchimento (umoristicamente denominati “inerti”).
L’oro contenuto nelle rocce di questo sito è appunto di natura epitermale, invisibile all’occhio ed a tenori bassissimi: 2ppm = 2 grammi per tonnellata (per realizzare il classico lingotto da 10 kg è necessario sbriciolare e trattare 5 mila tonnellate di roccia) viene concentrato con l’uso di cianuro di sodio, un sale molto tossico, che si è dimostrato molto più efficace del mercurio nel processo estrattivo dell’oro e che ha reso possibile l’estrazione dell’oro anche nelle modestissime concentrazioni riscontrate nella zona di Furtei. Nel 2008 la concentrazione del metallo scende però a valori così poco remunerativi che la miniera viene improvvisamente abbandonata, i 42 lavoratori ancora in forza, vengono messi in cassa integrazione e gli australiani spariscono con il loro bottino (4 tonnellate di inutili lingotti d’oro che ora certamente dormono sonni tranquilli, impilati in buon ordine, in qualche caveau svizzero) la devastazione che questi sciacalli, con la complicità dei loro referenti locali, si lasciano alle spalle è chiaramente visibile dallo spazio.
La legislazione italiana dimostra per l’ennesima volta la sua inefficacia ed i responsabili del disastro se la squagliano alla zitta, lasciando che a vigilare sui bacini colmi di cianuro restino solo i 42 lavoratori ormai licenziati che, a titolo volontario, da 4 anni si danno il turno alle pompe, per impedire tracimazioni dei veleni nelle campagne sottostanti. Gli stessi lavoratori che invano tentano di attirare l’attenzione della Regione Sardegna sul problema, con sit-in ed occupazione dei palazzi della politica.
Palazzi della politica che pure dovrebbero conoscere bene il problema, dal momento che il governatore della Regione (PdL) è lo stesso Ugo Cappellacci che dal 2001 al 2003 ha diretto la Sardinia Gold Mining, responsabile del disastro. Per ora la Giunta regionale ha stanziato solo 150 mila euro per mantenere il precario status quo, ma di soldi per una vera bonifica ne servono molti di più: si parla di una cifra compresa tra i 37 ed i 180 milioni di euro, tutti rigorosamente a carico dei contribuenti.
Essendo, dunque, trascorsa l’era dell’oro, della finta industrializzazione a spese dei contribuenti, i nuovi speculatori, oltre al turismo, hanno intravisto la nuova frontiera dove fare profitti, nell’energia: e qui, hanno trovato terreno fertile nell’ignoranza (quanto voluta e quanto interessata?) nei politici e nella stampa.
Succede così che non passa giorno che politici, di destra, di centro e di centro- sinistra non ci ricordino che la Sardegna è penalizzata nello sviluppo per il fatto di dover pagare l’energia più cara che nel resto d’Italia, anzi dell’Europa e perché no? del mondo intero e che, quindi, ha bisogno di nuove fonti di approvvigionamento:ed ecco saltare fuori dal cilindro i progetti più strampalati e creativi: si va dal progetto GALSI, un enorme tubo che, partendo dall’ Algeria avrebbe dovuto attraversare tutta la Sardegna per finire in Toscana (da notare che nel progetto non erano previste le opere per il rifornimento delle utenze sarde), progetto che sembra già abortito visto che l’Algeria ritiene non conveniente l’affare, all’eolico, enormi pale d’acciaio vengono piazzate in ogni dove con contorno di imprese mafiose o in odore di mafia bisognose di investire per riciclare , e frattanto si continua a bruciare combustibili fossili (carbone e petrolio), ma si pensa alla “chimica verde” un mostro che dovrebbe bruciare “cardi” (ma che per alimentarlo mezza Sardegna dovrebbe essere adibita alla coltivazione di “cardi” appunto) .
Insomma una bufala per rifilare un inceneritore e per farlo accettare dalla popolazione locale. Una bufala sponsorizzata, naturalmente oltre che dai politici locali dai sindacati (complici) con la promessa di posti di lavoro. Ma l’appetito vien mangiando e l’appetito di questi signori sembra sia insaziabile, e così dopo tutto questo ben di dio ecco che si inventano il metano ad Arborea, e nasce il progetto Eleonora.
A sponsorizzarlo è la SARAS, ed è la stessa che dovrebbe fare le trivellazioni: qui però, succede quello che i dirigenti della SARAS non avevano previsto. La popolazione, tutta la popolazione non si limita ad opporsi, ma si informa ed in un’affollatissima assemblea, sindaco e consiglieri comunali in testa, fanno presente che loro sono contrari perché credono nella loro economia fatta di allevamenti, e di agricoltura. Che se il costo dell’energia è tanto alto ciò non è a causa della mancanza di energia anzi la Sardegna ne produce molto di più di quanta ne consuma (30-40%) ma che questo è dovuto alle speculazioni che la Saras stessa pratica sulla compravendita.
Insomma un no deciso, un no che non ammette repliche: essi gli abitanti di Arborea hanno visto quanto effimere e bugiarde si sono dimostrate le promesse fatte da “imprenditori” politici “sindacati” e magari ambientalisti, di quelli un tanto al kilo che magari risultano essere a libro paga di CONFINDUSTRIA, o della SARAS stessa non vogliono credere alle menzogne di questi nuovi profittatori e dei loro lacchè e dicono no, perché hanno frequentato le lezioni di economia domestica a loro impartite nelle scuole pubbliche di tanto tempo fa: quelle che recitavano: se devi fare qualcosa accertati che serva, che sia di utilità per la comunità e non che sia finalizzata alla speculazione e alla distruzione delle condizioni di vita e lavoro tue e della tua comunità.
Il Comitato NO ELEONORA, in meno di una settimana è riuscito a raccogliere 6.587 firme e le ha presentate, con un documento dove vengono evidenziate le criticità e le osservazioni al progetto presentato dalla SARAS, al SAVI dell’Assessorato per l’Ambiente della Regione. In questo documento viene detto: «Il Proponente scarica interamente sul Decisore la responsabilità giuridica di avallare l’ipotesi che esiste (per stessa ammissione del Proponente) uno scenario di incidente grave, ma che la sua probabilità è talmente bassa da poterlo ignorare TOTALMENTE nell’intero S.I.A.
Il Servizio SAVI non può in alcun modo avvallare questa ipotesi e dovrebbe bocciare l’intero S.I.A esclusivamente per questa dichiarazione. A prescindere da qualsiasi calcolo il Proponente consideri, la probabilità che un evento di portata grave o gravissima si verifichi non sarà mai pari a zero». “ La parola spetta adesso all’Assessorato, e dobbiamo dire che la popolazione di Arborea non ha ancora vinto la battaglia, ma dopo questa raccolta di firme e dopo la manifestazione del 30 maggio abbiamo buoni motivi per supporre che ci siano tutti i presupposti perché questa battaglia venga portata avanti e con successo.