SARDEGNA: BOCCIATA LA LEGGE REGIONALE SCEMPIA STAGNI, CHE PERMETTE DI COSTRUIRE A RIDOSSO DELLE ZONE UMIDE.

Cagliari -

 

 

Il Consiglio dei Ministri nella seduta del 6 dicembre ha deciso di impugnare la legge regionale numero 20 (quella che gli ambientalisti avevano definito come legge scempia stagni) perchè in evidente contrasto con le leggi nazionali ed in special modo con la legge Galasso, quella che detta delle norme minime per la tutela delle zone umide.

 

La legge era passata all'esame dell'aula con i voti favorevoli di tutta la maggioranza in consiglio regionale (43 presenti 43 favorevoli: la solita falange macedone quando si tratta di votare leggi scempio), con il voto contrario di SEL e IDV e la benevola astensione del PD.

 

Certo non è questa la prima volta che il consiglio regionale vara una legge che viene in un secondo momento impugnata dal governo centrale e questa è normale prassi, anzi sarebbe questa una prassi normale se volessimo circoscrivere l'accaduto come un incidente di percorso dell'iter legislativo e non lo inquadrassimo, invece per quello che è realmente: un altro pezzo di mosaico apportato a quell'incredibile puzzle che si chiama “piano casa” (legge 21 del 2011 e successive modifiche).

 

Una legge voluta, fortissimamente voluta, dalla Giunta Cappellacci fin dal momento del suo insediamento. Una legge che, nelle intenzioni, e a parole, avrebbe dovuto snellire le procedure per ottenere le licenze edilizie e, quindi, dare impulso ad un settore asfittico come quello dell'edilizia e che in realtà conteneva di tutto: dalla creazione di campi da golf alla possibilità di stravolgere i piani paesaggistici precedenti. Una legge che sempre più tende a mostrare la sua vera natura: quella della cementificazione facile, della speculazione senza controlli.

 

Questa, del resto era la missione che s'era data questa giunta nei cinque anni di purgatorio di opposizione alla Giunta Soru e che aveva visto e sbeffeggiato la legge salva coste varata dalla precedente Giunta come un insieme di lacci e vincoli che impedivano lo sviluppo dell'edilizia.

 

Una concezione di edilizia che anziché studiata da studi di urbanisti architetti alla luce del sole e magari con il coinvolgimento delle popolazioni interessate viene pianificata nelle segrete stanze con l'ausilio di grembiulini, compassi e cazzuole da un pugno di “fratelli” che poi diventano grandi elettori.

 

E c'è del metodo in questa pazzia, avrebbe detto il drammaturgo inglese, c'è del metodo perchè sanno di pescare negli istinti primordiali della popolazione, quella che si ritrova senza lavoro e che è disposta a credere nelle favole miracolistiche di uno sviluppo a danno del paesaggio, nella crescita esponenziale di seconde e terze case, di milioni di metri cubi di nuovo cemento sulle nostre coste.

 

Pescano nel torbido, anzi nel nero delle cifre che l'ISTAT fornisce: 450.000 nuovi disoccupati nell'edilizia in un solo anno. Per avere un'idea della portata di questa cifra è come se in un anno avessero chiuso non una sola bensì trenta stabilimenti ILVA di Taranto! Ed il tutto nel silenzio generale: non ci è stato dato di sentire rumore di caschi sbattuti sull'asfalto, e questo per la natura delle nostre imprese edili, imprese molte volte a conduzione familiare o disperse in una miriade di microimprese.

 

E così si farnetica di piano casa, facendo venire l'acquolina in bocca a chi una casa non ce l'ha per la semplice ragione che non se la può permettere visti i prezzi di mercato e le difficoltà ad accedere ad un mutuo, nonché il caro affitti non calmierati da una offerta di affitti di proprietà pubblica. e non si parla di tutti gli appartamenti sfitti, non del fatto che i comuni da un trentennio hanno smesso di fare edilizia popolare; a centinaia e forse migliaia di manovali e muratori viene fatto credere che loro rimarranno disoccupati perchè il governo nazionale ha impugnato la legge scempia stagni e non si dice loro che i nostri torrenti, gli alvei dei fiumi sono lì che aspettano le prossime piogge per implorare l'ordinaria manutenzione che scongiuri la prossima “catastrofe naturale”, che i nostri centri storici hanno bisogno di manutenzione per essere resi vivibili senza bisogno di nuovo cemento, di nuove costruzioni, di nuovo depauperamento di territorio.

 

In questo contesto, nonché ad una certa italica attitudine al servaggio è da fotografare l'istantanea dei tanti politici, sindaci, presidenti di provincia, presidenti di regione, e perfino primo ministro italiano pronti a volare in Qatar.

 

In Qatar ad implorare investimenti e contenti della promessa di un investimento di 1 miliardo di dollari (7.-800 milioni di euro). Spiccioli di petrodollari dal punto di vista degli emiri, capaci come sono di spendere molto di più per il loro divertimento calcistico tra Manchester City, Paris Saint-Germain ) o a fomentare e finanziare guerre specie nei paesi arabi, assoldando eserciti e acquistando armi per rovesciare governi che hanno il torto di dirsi arabi e laici, gonzi e allodole ingenue di alcune favole, che la soluzione ai problemi socio-economici che da sempre caratterizzano uno dei punti di maggiore svendita, anche della dignità, della Sardegna pretenziosamente turistica.

 

Un miliardo di dollari, un magnifico specchio per allodole più che la soluzione ai problemi socio economici che attanagliano la Sardegna, un mezzo per comprare la residua dignità della Sardegna che si da arie da Regione turistica.

 

Un miliardo di dollari per l'emiro che nel forziere possiede la modica somma di 15.000 miliardi dollari (per capirci 7 volte tanto quanto il debito pubblico italiano).

 

E così i pezzi più appetibili delle nostre coste vengono messe in svendita, si favoleggia di stazzi da trasformare in magnifici resort, in alberghi a 5 stelle.

 

Tutto viene svenduto in cambio del miraggio di qualche anno di occupazione come muratore o manovale e di un radioso futuro da cameriere.

 

E si favoleggia di una università del turismo (sindaco di Arzachena dixit) facendo finta di ignorare lo stato di abbandono in cui versano gli istituti alberghieri dell'isola. Edifici dai cui tetti l'intonaco cade letteralmente a pezzi, computer che mancano, carta e toner per stampanti da acquistare a carico degli studenti.

 

Ma a che serve ricordare queste cose? A che serve rovinare il sogno di chi un lavoro non ce l'ha e che aspira ad averlo?

 

E non è a loro che lo si deve ricordare ma a coloro che sono stati chiamati a risolvere i problemi ed in primo luogo i problemi connessi al lavoro: che non lo facciano con la facile demagogia di dichiarazioni di indipendenza, né con la svendita del territorio ma con atti concreti, piccoli atti e opere che permettano ai cittadini di riappropriarsi del proprio territorio e che possa viverlo nel rispetto delle bellezze che di cui la natura lo ha fornito.