CAMBIARE SI PUO', CERTO, MAGARI...

 

Lavorare in pochi, lavorare tanto, cioè più di prima, per guadagnare se va bene come prima. E prima - meglio dire adesso - i salari dei lavoratori italiani erano i più bassi d'Europa. E' questa, in due parole, la ricetta alla base dell'ipotesi di accordo presentata dalla Confindustria a Cgil, Cisl e Uil.

I contratti nazionali si riducono al puro recupero di una modesta parte dell'inflazione, e quelli di secondo livello vincolati da un legame totale e indissolubile degli eventuali aumenti salariali alla produttività, all'utile d'impresa. Il tutto accompagnato dalla detassazione degli straordinari - per renderli addirittura più convenienti del normale costo orario della prestazione lavorativa - e dei premi di risultato, cioè degli aumenti conquistati nei contratti integrativi di secondo livello.

L’obiettivo è quello di subordinare, sempre più strettamente, il salario al profitto delle imprese: “salario in cambio di produttività”, ma in Italia il tasso di produttività è già alto mentre il salario è basso. Infatti i dati pubblicati recentemente dall’OCSE (i 30 paesi industrialmente più sviluppati) dimostrano chiaramente che in Italia il numero di ore lavorate è tra i più alti dell’area OCSE, ma i salari sono tra i più bassi (circa 6.000 dollari all’anno in meno della media). 

La proposta, come si usa dire oggi, è irricevibile. Lo è in assoluto, perché riduce il lavoro a pura merce, variabile dipendente dai profitti. Lo è nello specifico, per la peculiare struttura produttiva italiana, frantumata in decine di migliaia di piccole imprese in cui non solo non si contratta, ma dove molto spesso il sindacato neppure riesce a metter piede.

Dire che, sia il recupero di una parte dell'inflazione, che gli aumenti salariali, sono demandati alla contrattazione di secondo livello, vuol dire discriminare i lavoratori e condannarne la maggioranza a un ulteriore impoverimento.

C'è un’altra questione che rende insostenibile, prima ancora che inaccettabile, la pretesa degli industriali, in piena coerenza con le politiche del governo e con il pronto consenso di Cisl e Uil: con l'attuale precipitazione, la crisi finanziaria si estende all'economia reale, riducendo conseguentemente i consumi e dunque la domanda. In prospettiva, ciò significa esplosione della cassa integrazione nelle grandi imprese e licenziamenti in quelle più piccole. In questo contesto, quanti saranno i lavoratori in grado di conquistarsi il contratto integrativo?

Tutto questo significa dare il via libera alle “gabbie salariali”, cioè al fatto che due persone che fanno lo stesso lavoro in due posti diversi avranno salari e diritti diversi. 

Quando si sarà consumata definitivamente la rottura della solidarietà tra lavoratori (italiani contro immigrati, vecchi contro giovani, sud contro nord, privato contro pubblico, garantiti contro precari…) chi avrà avuto la meglio? 

Oggi più che mai, la questione è che si è smesso di esaminare i fenomeni dal punto di vista del lavoro, della dignità e dei bisogni delle persone, considerandoli una “semplice” variabile dipendente dalle fortune dell’impresa.

Cambiare si può, certo, magari… prestando la dovuta attenzione a quale sia la posta in gioco e quali le possibili conseguenze delle novità che si vorrebbero introdurre.