CHE AI FRANCESI ANCORA GLI GIRANO
Questo articolo, di Gianni Loy (professore ordinario di diritto del lavoro nell'Università di Cagliari), è stato pubblicato nel N. 33 del Manifesto Sardo
Non ancora sopito il dibattito sul ruolo del movimento in relazione ai fatti della Cecoslovacchia del 1968, ecco che imperversa la polemica sulle presunte responsabilità che quel movimento avrebbe avuto nello scadimento della scuola italiana. Risibili semplificazioni costruite sulla parodia del sei politico, fenomeno del tutto marginale, quasi folkloristico, di un movimento che ben altre ambizioni e lungimiranza ha avuto proprio in materia di istruzione. Che poi, nel sessantotto, è bene cominciare a comprendere anche la cultura cristiana di don Milani, nata anni prima, icona di un nuovo modo di approccio al problema dell’istruzione in Italia, che con la sua Lettera ad una professoressa ha svelato i meccanismi di perpetuazione del potere che utilizza, di fatto, le istituzioni formative ed esclude chi, per povertà o non appartenenza alla classe eletta, non può usufruire degli strumenti scolastici neppure quando, formalmente, gli sono aperti. Ma quale critica alla meritocrazia? Piuttosto la critica ad un sistema ipocrita che consentiva che solo gli appartenenti alle classi abbienti potessero accedere ai gradi più alti degli studi. I privi di mezzi, per parafrasare il testo dell’art. 34 della Costituzione, potevano accedere ai più alti gradi del sapere solo se capaci e meritevoli, mentre i figli della borghesia, quindi, potevano accedervi anche se non capaci e non meritevoli. E’ così che quel movimento, innanzitutto, ha portato all’abbattimento delle barriere che impedivano il libero accesso all’Università. E guai se ciò non fosse avvenuto per tempo, visto il perdurante deficit di laureati che oggi rende necessaria l’importazione di cervelli provenienti da altri paesi comunitari e non comunitari. E’ così, del resto, che si da attuazione al principio costituzionale per cui la scuola è aperta a tutti. Ci paiono cose banali. Eppure sobbalziamo quando sulle pagine dell’Unione Sarda il prof. De Chiara, di fronte alla sciagurata proposta governativa di trasformare le università in Fondazioni, candidamente si dichiara d’accordo con il fatto che si possano creare università di serie A, ovviamente destinate agli abbienti, per lasciare il resto ai peones. Ed ai capaci e meritevoli? Daremo una borsa di studio perché qualcuno di essi emerga, a dimostrazione che anche dalle classi dei diseredati, talvolta, può nascere un cervello? Roba da non credere! No. Una scuola realmente aperta a tutti, cioè senza eccessive barriere economiche di ingresso per tutti i cittadini, è la sola scuola che può far selezione meritocratica, per impiegare un termine che, in ogni caso, non mi piace. Non mi è mai piaciuto perché lascia intendere che il merito possa giustificare l’assunzione del potere, il dominio su chi, invece, meritevole non è. Ma non dimentichiamo che parliamo di meriti scolastici, di conoscenze, e che esistono anche altri meriti. Il riconoscimento del merito scolastico, piuttosto, indica una differente collocazione, che può giustificare un miglior reddito, con tutto ciò che ciò comporta, ma nell’ambito di una sostanziale uguaglianza di valore di tutte le persone. E poi, altra ipocrisia, forse che i nostri giovani migliori, i più brillanti laureati, vengono trattati con rispetto? O non sono in prevalenza destinati al buio cammino del precariato, quando non all’umiliazione? Salvo pochi. Ma quale meritocrazia? I posti più ambiti, a partire dalla dirigenza pubblica, sono rigidamente riservati ai lavoratori anziani, con esperienza, dicono. Ma quale esperienza? Guardate se un giovane brillante neolaureato, dottore di ricerca e plurimasterizzato, potrà mai essere ammesso a partecipare alla selezione per un incarico dirigenziale pubblico. Si può diventare dirigenti, in sostanza, solo se si è già diretto qualcosa. La meritocrazia, nel senso buono del termine, viene oggi negata da una società cristallizzata e clientelare, non certo dall’eredità del sessantotto. Il sessantotto, semmai, ha cercato di ripulire e rivoluzionare un sistema di istruzione ripetitivo ed incartato su base nozionistica. Ha criticato una scuola ancora impostata con regole nate durante il fascismo, incapace, di educare ai valori della democrazia, reticente persino sulla storia recente del paese, a partire dagli esiti, drammatici della seconda guerra e dal movimento di liberazione nazionale. Lo studio critico, l’apertura al confronto con i fatti culturali e politici dell’attualità sono stati elementi di costruzione e consolidamento della democrazia che ancora sino agli anni 70, non lo si dimentichi, ha vissuto all’ombra di cospirazioni antidemocratiche. Se oggi, al sud, la dispersione scolastica è in aumento, se talune istituzioni scolastiche non raggiungono l’efficienza di analoghe strutture del nord - ma per favore non parliamo di qualità - la spiegazione si trova ancora nell’analisi di don Milani. Il paese è come una classe, dove i risultati di ciascun alunno dipendono, in misura significativa, anche dagli strumenti economici e sociali di cui ciascuno può disporre. Ecco spiegato il divario tra nord e sud di un’Italia sempre più incompiuta. Certo, il sessantotto, per molti, è ancora come una spina nel fianco, come la vittoria di Gino Bartali al tour de France, che ai francesi ancora gli girano. E’ il momento in cui salta in aria il baraccone. Ma è pur sempre un tempo di passaggio. Un tempo provvisorio della storia destinato a declinare, a sfumare. Anche per questo, si impone oggi una chiara distinzione di metodo. Dobbiamo aver chiaro di quando si parla del sessantotto in chiave di ricostruzione storiografica, ed in questo ben vengano le ricostruzioni dei fatti, degli atteggiamenti e dei ruoli, dei protagonisti politici e sociali di quegli anni, a patto di non volerli automaticamente imputare alla storia personale di chi li ha vissuti. Personalmente, ho sfilato a Milano alla primo spontaneo corteo di protesta contro l’invasione della Cecoslovacchia, ho parteggiato per Dubcek, ho cantato la primavera di Praga di Guccini. Ed a patto di non voler automaticamente far derivare dalla ricostruzione di quei fatti la giustificazione di tutta la successiva storia politica del paese o di una sua componente. E dobbiamo aver chiaro quando, invece, il sessantotto è la parola che sintetizza un insieme di principi, peraltro non sempre perfettamente coincidenti per tutti, che riteniamo meritevoli di essere ancora testimoniati. Sia la libertà e la democrazia, allora represse con i carri armati, sia la scuola libera, realmente aperta a tutti e capace di riconoscere i meriti, sia l’uguaglianza e la non discriminazione razziale (il sessantotto è anche l’anno in cui fu ucciso Martin Luter King), ad esempio, sono principi che probabilmente abbiamo appreso in quegli anni ma che rimangono più che mai attuali e per i quali vale la pena continuare a lottare ancora oggi.
Gianni Loy - www.manifestosardo.org