LAVORARE DI PIU' PER GUADAGNARE DI PIU'

Questo articolo, di Gianni Loy (professore ordinario di diritto del lavoro nell'Università di Cagliari), è stato pubblicato nel N. 26 del Manifesto Sardo

 

Cagliari -

 

Che le retribuzioni mensili nette dei lavoratori italiani siano nettamente inferiori a quelle dei lavoratori di altri paesi europei (meno 10% rispetto ai tedeschi, meno 20% sugli inglesi, meno 25% sui francesi) non è un’impressione. E’ la constatazione del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Ma anche il costo del lavoro, comprensivo, quindi, dei contributi, risulta per Italia al di sotto della media di quei paesi. Nessun mistero, per altro verso, circa il fatto che a fronte di uno striminzito aumento medio delle retribuzioni dei dipendenti, quella dei dirigenti è cresciuta, nell’ultimo decennio, di centinaia di volte, secondo una tendenza riscontrabile in quasi tutti i paesi occidentali, Usa in testa. Se la retribuzione di Cesare Romiti nel 1993, secondo quanto riferiscono Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in “La Deriva”, corrispondeva a 21,2 volte il costo medio di un dipendente della Fiat, oneri sociali compresi, l’onorario del suo successore, Sergio Marchionne, è pari a 178 volte quello dei dipendenti. Cioè la sua retribuzione è cresciuta del 178%. Ci si sarebbe aspettati, secondo logica, una iniziativa volta a far recuperare ai salari il perduto potere d’acquisto, molti hanno invocato una politica in tal senso, anche perchè i bassi salari finiscono per deprimere i consumi e di conseguenza, producono effetti negativi per l’economia. Una volta, tanto tempo fa, fu lo stesso papa, Pio XII, ad invocare l’aumento dei salari degli operai perché i lavoratori potessero comprare i prodotti del miracolo economico italiano, le prime utilitarie, e queste non rimanessero invendute nei piazzali delle fabbriche. C’è diffuso consenso, insomma, sulla necessità di una adeguamento salariale. Curiosamente, però, la strada imboccata per tentare di restituire dignità alle retribuzioni non è la più lineare. Se le retribuzioni sono basse, in sostanza, occorrerebbe “semplicemente” aumentarle. Semplicemente si fa per dire, ma il processo dovrebbe essere lineare, a partire dalla richiesta di aumenti salariali da parte delle organizzazioni sindacali. Ed invece, la strada indicata dalla parti sociali già nell’ultimo scorcio della passata legislatura, ed ora trionfalmente imboccata dal nuovo Governo, si ispira allo slogan: lavorare di più per guadagnare di più. Laddove il lavorare di più, non si riferisce ad una eventuale maggiore produttività o redditività aziendale, secondo una linea già tracciata nell’accordo quadro del 1993, ma proprio ad un incremento dell’orario di lavoro. I lavoratori, in altri termini, potranno colmare il divario tra l’attuale retribuzione e quando necessitano per una vita dignitosa mediante un aumento delle ore lavorate. Cioè mediante l’allungamento della giornata lavorativa. L’incentivo, che potrebbe anche essere rilevante, consiste in un significativo aumento della retribuzione delle ore aggiuntive mediante meccanismi di esenzione dall’obbligo di pagare l’imposta sul reddito. Se il lavoratore non dovrà più pagare l’Irpef su quanto percepito durante l’orario straordinario, e sarà disponibile a farlo, è evidente che porterà a caso un incremento salariale non trascurabile. Il Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza lavoro e competitività, ha previsto l’abolizione della contribuzione aggiuntiva sugli straordinari che era stata introdotta dalla Legge 28 dicembre 1995, n. 549 (art.2 commi 18-21). Tale maggiorazione, oscillante tra il 5 ed il 15 per centro della retribuzione, aveva sostanziamene lo scopo di scoraggiare l’uso sistematico dello straordinario allo scopo di favorire l’assunzione di altro personale stabilendo, tra l’altro, che tali somme sarebbero state destinate a “finanziare misure di riduzione dell’orario di lavoro e di flessibilità dell’orario medesimo”.


L’accordo tra Cgil-Cisl e Uil di qualche giorno fa, sulla riforma della struttura della retribuzione, richiede, in aggiunta alle misure contenute nel protocollo del 2007, la decontribuzione, pensionabile, delle somme erogate a titolo di produttività, con misure aggiuntive di detassazione che dovrebbero riguardare anche il lavoro straordinario. In altri termini, siamo in presenza di una rivoluzione copernicana in materia di gestione dell’orario di lavoro e della conseguente gestione dell’orario straordinario che va avanti a grandi passi di fronte ad una sorta di quasi generale indifferenza. Il principio lavorare meno, lavorare tutti, sino a qualche anno fa, conteneva due fondamentali principi ispiratori: quello di ritenere che la giornata e la settimana lavorativa rappresentassero un limite non superabile ed anzi progressivamente da diminuire sino a raggiungere una durata di 35 ore settimanali, e quello di ritenere che la riduzione della giornata lavorativa avrebbe potuto comportare effetti benefici in materia di occupazione. Su quella scia, grandi organizzazioni sindacali, a partire dalla Germania, hanno condotto lotte che, in alcuni momenti, hanno avuto una dimensione europea. La contrattazione collettiva ha prodotto significativi risultati nella direzione della riduzione della settimana lavorativa, come nel settore metalmeccanico in Germania. In Francia si è arrivati alla legge sulle 35 ore. Sembrava prendere corpo una vecchia utopia del socialismo delle origini, e non solo di quello, che immaginava una società dove poche ore di lavoro giornaliero sarebbero state sufficienti a garantire una dignitosa sopravvivenza per tutti. Il che, peraltro, continua ad essere tanto vero e verosimile che per poter garantire ritmi più elevati, l’attuale società è costretta ad alimentare ed incentivare la continua distruzione di beni assolutamente utili in modo da consentire la produzione di nuovi beni. Già Tommaso Moro, nella sua Utopia, (1516) immaginava una società dove sei ore di lavoro giornaliere avrebbero dovuto rappresentare l’impegno di tutti i cittadini, e Campanella, nella sua Città del sole (1620) ritiene che quattro ore di lavoro giornaliero siano più che sufficienti per procurare abbondanti risorse per la collettività. E poi tanti altri, sino alla proposta di Paul Lafargue che nel suo “Elogio della pigrizia” (1883), propone una giornata lavorativa di 3 ore. Ed in effetti, a partire dal XX secolo, si è andati verso una progressiva riduzione della giornata lavorativa, dapprima con la storica conquista delle “otto ore”, poi con la riduzione della settimana lavorativa di cui si è appena detto. In tale contesto, la legislazione italiana ha, per un verso, garantito, per legge, la fissazione della durata massima giornaliera del lavoro (secondo la previsione dell’art. 36 della Costituzione), per altro verso, ha stabilito forme di controllo dello straordinario prevedendo per legge una sua maggiore remunerazione del 10% (per lo più elevata dalla contrattazione collettiva) e, infine, forme di controllo della sua diffusione mediante l’obbligo di comunicazione dei livelli elevati di prestazioni straordinarie agli uffici pubblici. E’ stato anche previsto un limite massimo di 250 ore annuali che opera, tuttavia, solo in mancanza di una diversa disciplina da parte della contrattazione collettiva (l. 409/1998). Si considerava, cioè, il lavoro straordinario più penoso, e quindi lo si retribuiva in misura maggiore per il fatto di svolgersi oltre l’orario normale di lavoro e, allo stesso tempo, se si intendeva, rendendolo più oneroso, disincentivarlo. Poi, in maniera strisciante, molte cose sono cambiate. Si pensi soltanto che in Italia, a dispetto di quanto stabilisce la Costituzione, non esiste più un orario massimo della giornata lavorativa. Tale limite massimo, se proprio si vuole, si può ricavare indirettamente a partire dall’obbligo del riposo giornaliero di 11 ore consecutive stabilito dalla norma che recepisce la direttiva comunitaria in materia di orario di lavoro. Da ciò, peraltro, consegue che l’unico limite massimo di durata della giornata lavorativa è oggi, in Italia, di 13 ore.
Altrettanto potrebbe dirsi per la durata settimanale. Rispetto ad essa sono previste sia una durata “normale” di 40 ore che una durata “massima” di 48 ore, calcolata, però, come media di un periodo di diversi mesi, quattro o sei nel caso di disciplina stabilita dalla contrattazione collettiva. Alla luce degli attuali limiti, in sostanza, niente vieta che un lavoratore possa svolgere in una settimana sino a 78 ore di lavoro, cioè 13 ore al giorno per sei giorni più una giornata di riposo, ove l’orario venga poi ridotto in altre settimane sino rispettare il limite massimo nella media dei quattro o sei mesi da prendere in considerazione. Grazie a tali nuovi meccanismi, introdotti dal decreto legislativo n. 66/2003, si è affermata, in sostanza, una notevole flessibilità dell’orario di lavoro. Rispetto a tale tendenza, la tecnica dell’incentivazione del lavoro straordinario mediante la sua detassazione, per un verso completa la tendenza alla flessibilità dell’orario di lavoro e, per altro verso, aggiunge una caratteristica in più che provoca una forte spinta, in controtendenza, verso un progressivo allungamento della giornata lavorativa. L’attuale imminente aumento del compenso per il lavoro straordinario, infatti, in quanto ottenuto mediante l’esenzione fiscale, non costituisce, come nel passato, un aggravio del costo del lavoro con possibile effetto disincentivante. Anzi, come abbiamo visto, l’accordo interconfederale del 2007 ha previsto la soppressione dei contributi aggiuntivi introdotti nel 1995. In secondo luogo, in una situazione nella quale i salari ordinari continuano ad essere bassi, spesso insufficienti, il ricorso allo straordinario, ove le aziende lo richiedano, finisce per costituire una necessità piuttosto che una libera opzione con la concreta possibilità che si trasformi in una prassi normale, cioè che possa costituire un allungamento di fatto della giornata lavorativa. Senza dimenticare che l’effettuazione di ore straordinarie potrebbe anche essere imposta al lavoratore nel caso che ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva.


In definitiva, siamo in presenza di una profonda rivoluzione dell’assetto dell’orario di lavoro, che spinge fatalmente i lavoratori a lavorare di più per guadagnare di più, invertendo una storica tendenza degli Stati del benessere occidentali. Ciò peraltro, si pone in controtendenza anche rispetto all’obbiettivo del controllo del fenomeno degli incidenti sul lavoro, posto che la fatica accumulasi nell’ultima parte della giornata lavorativa costituisce un sicuro elemento di aumento del rischio. E tutto ciò nel silenzio generale, anzi con il plauso, bipartisan, di chi prende in considerazione il mero aumento salariale determinato della detassazione degli straordinari. Peraltro, con una ulteriore deroga al principio della proporzionalità della tassazione, posto che essendo riferito all’unità marginale del reddito, l’esenzione comporta un beneficio proporzionalmente maggiore per coloro che percepiscono redditi più elevati.

 

Gianni Loy   -   www.manifestosardo.org